La solitudine: le reti relazionali (famiglia, scuola, sport) sono slabbrate. Noi adulti abbiamo sempre meno tempo per stare con i nostri ragazzi
La mancanza di motivazione è ciò che accomuna gli ultimi due terribili fatti di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica.
«Non so perché l’ho uccisa», così avrebbe detto Moussa Sangare agli inquirenti che gli chiedevano conto dell’accoltellamento di Sarah. Mancanza di un perché che ritorna anche nella drammatica vicenda di Riccardo, il diciassettenne milanese che ha sterminato la sua famiglia.
I due casi di cronaca rimandano, in condizioni storiche del tutto diverse, alla riflessione di Hannah Arendt sulla «banalità del male». «Non so perché l’ho fatto» dice che lo stato confusionale in cui si sono ritrovati Moussa e Riccardo era arrivato al punto da aver reso indistinguibile ai loro occhi il bene dal male, la fantasia dalla realtà. Una perdita di senso dentro vite apparentemente normali.
La determinazione del «perché» è compito difficile e pericoloso. Per delle buone ragioni, le nostre società hanno sviluppato una vera e propria allergia nei confronti di tutti i regimi etici che vogliono imporre la loro idea di verità. Il senso della vita, il perché di quello che si fa é prerogativa della singola persona. Di conseguenza, la nostra organizzazione sociale si concentra (per la verità sempre più ossessivamente) sui mezzi: accrescere le possibilità di vita (attraverso l’innovazione tecnologica, la crescita economica, i diritti individuali) è la precondizione per la libera scelta dei propri scopi.
Arrivare a darsi un perché non è però compito facile. Né tanto meno qualcosa che si fa in solitudine. É solo in rapporto ai contesti relazionali, istituzionali e culturali in cui viviamo, alla loro qualità, alla loro capacità di permettere il riconoscimento di quello che siamo che è possibile arrivare a portare a termine quello che è uno dei compiti fondamentali del vivere.
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